Il Richiamo della luna

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  1. Fortunato Ciotola
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    Prologo



    Bianchissima era la luce che quella argentea luna spolverava in ogni angolo, in ogni sotterfugio o cunicolo. Talmente forte da sembrare, a passeggiatori notturni, pescatori in riva al mare e spensierati dormienti, un faro rivolto su di loro. Una costante che circa ogni 28 giorni entrava in una fase, quasi, definibile come portentosa.
    Tra le tante case sparpagliate in tutto il paesino ne spiccava una per la sua caratteristica insegna dorata. Su di essa era inciso il cognome di una famiglia ormai sgretolata, i Miller.
    Proprio durante quella notte assai particolare l’unica figlia del Signor Arthur Miller, Vanille, fu lasciata sola in casa.
    La secca terra desiderava ardentemente dell’acqua da molto tempo, ormai. Quella fu la notte in cui il suo appello fu accolto. Dei minacciosi cumulonembi provenienti da ovest iniziarono a coprire tutta Pontoise. Minacciosi quanto uno stormo di avvoltoi affamati di carne in putrefazione, avanzarono rapidi fino al nascondere del tutto la volta celeste. L’oscurità calò anche nella piccola camera della giovane donna.
    Cenò molto presto quella sera e il letto era la sua dimora da, ormai, svariate ore. La stanchezza accumulata durante il giorno non poté reprimerla e così, senza vergognarsene, si regalò un lungo sonno. O almeno questo il suo corpo e la sua mente pensavano. Alla prima devastante saetta i suoi occhi smeraldo si spalancarono. Continuava a ripetersi tra sé e sé mentre stringeva sempre più la coperta con le mani. Una seconda saetta, molto più attigua e forte della precedente, fece tremare il vetro della finestra. Anche il coprire le orecchie con il guanciale era inutile per l’intimorita ragazza. I lampi luminosi illuminavano tutta la sua stanza disegnando lunghe ombre contro le pareti azzurre. La camera era modesta, un lettino al centro con un armadio sul lato, di fronte la porta ed una finestra che affacciava sul retro della casa. Proprio da quella finestra si insinuò uno spiffero gelido che costrinse Vanille, dopo aver racimolato la forza e un cuscino da portare con sé, ad alzarsi per serrare l’infisso. Il contatto tra i piedi nudi e il gelido pavimento in legno irradiò, in tutto il suo corpo, una fitta pungente. La tentazione di ignorare quell’alito di vento e di riscappare tra le sue coperte era una forte tentazione alla quale, però, non poté cedere. Subito dopo un altro tuono divampò un temporale. L’acqua funesta colpiva la finestra con impeto feroce e bramoso di entrare in quella stanza.
    Vanille era dinnanzi alla finestra pronta per ruotare la maniglia in ottone e serrarla quando, allungando lo sguardo verso la penombra creata dal viale d’abeti, non intravide un’ombra assai bizzarra. Sembrava la figura di un uomo accovacciato sulle ginocchia intento a rovistare tra i bidoni della spazzatura. Un barbone, pensò immediatamente la ragazza ma quando questa figura bloccò i suoi movimenti per poi girare, molto lentamente, il capo verso la finestra ella dovette ricredersi. La fioca luce del lampione che seguiva il sentiero non era abbastanza per osservare con chiarezza quel viso. Quasi a volerla aiutare un luminosissimo lampo illuminò, più di un sole, l’intera zona. Più che un uomo aveva il viso di un ragazzo, forse della sua stessa età. Indossava un lungo pastrano nero. Il capo era coperto da una bombetta alla Charlie Chaplin mentre le mani erano avvolte in un paio di guanti in pelle. Gli occhi verdi del giovane uomo subito puntarono quelli di Vanille che si era, letteralmente, pietrificata, davanti alla finestra. Immobilità che perse non appena il ragazzo da chino si alzò in piedi. A quel punto, adottando come consigliera la paura, serrò la finestra, chiuse la tenda e corse a rifugiarsi sotto le coperte. A spaventarla non erano più i fragori della tempesta ma alcuni lenti ed intensi lamenti provenienti dal cuore della foresta. Improvvisamente, probabilmente per il fortissimo vento, la finestra si liberò dai suoi fermi e si spalancò. L’aria gelida si addentrò in ogni angolo, fin sotto le coperte che Vanille aveva portato fin oltre il naso. Gli occhioni spalancati e il sapere di dover richiudere quella maledetta finestra malandata. Questa volta portò con sé tutte le coperte a mo’ di protezione, facendola strisciare come la lunga coda di un pregiato abito nuziale. Raggiunse la maniglia ma prima di richiudere il tutto non riuscì a non rilanciare uno sguardo al di fuori di essa. L’ombra scura di quel ragazzo era nuovamente china con le mani intente a scavare la terra. Vanille, terrorizzata e con i tremori non soltanto per il freddo, osservava l’operato del ragazzo. La sua curiosità era troppo forte e poi quel viso non le parve familiare. Il capo del ragazzo, questa volta, non ruotò verso la finestra. La ragazza, quasi delusa, provò a picchiettare contro il vetro con le sue nocche per attirare la sua attenzione ma tutto fu inutile. Non sapeva per quale motivo ma la paura per il temporale era secondaria in quel momento. Altre saette irradiarono il firmamento notturno ma la ragazza non si scompose. Desiderava riprovare il terrore di rispecchiarsi in quegli occhi. Picchiettò nuovamente contro il vetro ma il risultato non mutò, il ragazzo, chino al suolo, non si smosse minimamente verso la sua direzione. Vanille era ad un passo dall’arrendersi quando un calo di tensione spense tutte le luci, oscurandole la vista. La curiosità si tramutò nuovamente in terrore. Chiuse frettolosamente la finestra e la tenda per poi saltare nel letto a rifugiarsi nei suoi tormenti e paranoie. Il temporale non accennava alla resa, anzi manifestò di aver in serbo ancora tante carte nella sua mano. Il vento trapassava il telaio in legno della finestra creando un sibilo inquietante. Vanille era rannicchiata in posizione fetale sperando che il giorno arrivasse e che la tempesta cessasse. Le sue preghiere non furono soddisfatte.
    Il rumorio della pioggia iniziò a diminuire verso le 3. La ragazza, ormai scossa dai lampi e dai pensieri, cercò di escogitare un modo per riposare un po’. Infilò la testa sotto il cuscino per poi coprire il tutto con la coperta. Questa scomoda posizione non le fu molto utile per il suo obiettivo. Difatti riuscì a sentire, nitida e chiara, una particolare risata provenire dalla foresta. Sembrava uno di quegli sghignazzi compiaciuti originati dallo stomaco. Il tutto era alquanto macabro se unito a tutte le esperienze che la ragazza aveva dovuto sopportare fino a quel momento.
    Sempre con il capo immerso tra il guanciale ed il materasso di lana, Vanille, riconobbe un nuovo suono. Forse sarebbe stato meglio definirlo come un rumore. Un qualcosa provenire, non da oltre la finestra ma dall’interno di casa sua, più precisamente verso l’ingresso. La porta, dal fracasso percepibile, sembrava fosse scossa da spallate e spintoni. Subito nella mente di Vanille si materializzò il viso di quel ragazzo losco e svanito oltre il vialetto sterrato. Sola in quella casa nel cuore della notte e con dei ladri pronti ad entrare. L’agitazione iniziò a far il suo lavoro e la ragazza si ritrovò seduta nel letto senza saper cosa fare. Andare in cucina per chiamare la polizia o attendere che i ladri si stancassero e andassero via. Quest’ultima fu la scelta presa da Vanille, fin quando non sentì un rumore diverso provenire dalla porta d’ingresso. Sembravano imprecazioni senza particolare impeto, quasi dei sussurri. Uscì dalla sua stanza fino al percorrere il breve corridoio per raggiungere la piccola cucina. La porta d’ingresso era ad un paio di metri da lei. L’ansia ad ogni colpo aumentava sempre più. Addirittura raggiunse la sala a piedi nudi per non destare l’attenzione dei delinquenti. Si avvicinò al bancone per poi alzare la cornetta: era isolata. Le mani le iniziarono a tremare così come il cuore a battere impetuosamente contro il petto. Vanille approfittò di un attimo di tregua per filar via verso il ripostiglio in fondo al corridoio. La sua idea era quella di trovare un qualcosa da usare come arma o eventuale ultima difesa. Le uniche cose che vi trovò, dopo aver spintonato la porta per aprirla, erano un flacone di detersivo ed una ramazza. Afferrò il manico di quest’ultima per poi appostarsi al centro del corridoio, inerme. I rumori alla porta sembravano sedati. Vanille fece alcuni passi verso di essa, sempre a piedi nudi. Stava per passare davanti la porta della sua camera quando, con la coda dell’occhio, vide un’ombra rapidissima muoversi proprio in essa. Voltò il capo per poi seguire tutto il corpo. C’era qualcosa o qualcuno nella sua camera. La finestra era chiusa. Oltre di essa, allungando lo sguardo, si poteva intravedere una densa macchia nerastra che, via via, svaniva con il cadere della pioggia. Mentre Vanille era impegnata a scrutare oltre la finestra un tonfo preannunciò l’avvenuta apertura della porta. Senza nemmeno voltarsi spalancò gli occhi per poi correre a chiudere la sua porta a chiave. Infilò il manico della ramazza tra la maniglia e scappò nell’armadio. Riuscire a sentire i passi che man mano, zuppi d’acqua, avanzavano lungo il corridoio era un qualcosa che fece raggelare il sangue nel corpo di Vanille. Quando poi i passi si fermarono dinanzi alla sua porta, l’agitazione toccò le stelle. Il rumore della maniglia che veniva calata donava alla ragazza una fitta ogni volta che veniva forzata. Nessuna voce, c’erano soltanto scricchiolii di legno e un gocciolare d’acqua.
    Un leggero botto avvisò Vanille della caduta della ramazza e della successiva apertura della porta.
    Attraverso una piccola fessura tra le porte dell’armadio riuscì a scorgere un’alta figura entrare e girare per la camera. I suoi passi erano lenti e pesanti. Quasi fossero stanchi, ormai striscianti. Vanille aveva il timore che il rumore del suo cuore la tradisse ma ad un certo punto questo le parve muto, silenzioso, senza battito alcuno; gli occhi della scura figura, il cui viso era nella penombra, avevano incontrato i suoi. Un’implosione interna devastò la ragazza che si sentì mancare il fiato per il terrore. L’uomo non si avvicinò di un solo passo all’armadio. Bloccò i suoi occhi verso quella stretta fessura per poi voltarsi ed uscire dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di tirare un sospiro che subito la porta si rispalancò dando accesso ad un’entità quasi immateriale. Vanille sentì un rumore di passi ma non riuscì a scorgere nessun’ombra o figura dalla fessura delle porte dell’armadio. Provò a scostare l’anta per aver più angolo di visione ma non appena ci provò una forza invisibile spinse nel verso opposto con un impeto tale da schiacciarla contro la parete interna in legno. Rialzatasi, non conscia di quel che era successo, provò a riaprire le ante ma le fu tutto impossibile. A questo punto capì di essere stata trovata. La vita le iniziò a scorrere davanti agli occhi come fulminei fotogrammi. Tutto era immerso nel silenzio più ovattato. Ormai era ad un passo dal collasso. Il respiro affannoso era impossibile da domare ma dovette trattenerlo quando, dall’esterno dell’armadio, un suono particolare nacque. Sembrava il graffiare di un gatto, anzi era lo scorrere di un qualcosa di acuminato contro la porta dell’armadio. Quel gracchiante rumore durò pochi secondi ma per Vanille il tutto ebbe una durata infinita. Alla fine di ciò il suo corpo non resistette e, al vedere la punta della lama trapassare la porta e quasi sfiorarle la fronte, svenne.

    L’alba arrivò e dalla fattoria vicina a casa Miller il gallo iniziò ad intonare una litania spaccatimpani. Per Vanille fu il rumore più agognato e apprezzato. Le parve di aver dormito per secoli. Si svegliò riposata e con, nel corpo, una sensazione di benessere diffuso. Mente sgombra da pensieri e tanta forza per affrontare il nuovo giorno. Al di là dell’incubo che la notte prima l’aveva tanto scossa, quella mattinata piena di sole iniziò nel migliore dei modi. Si alzò per poi avvicinarsi alla finestra per spalancarla. Discostò la tenda e la camera fu invasa da caldi raggi. Una fresca e frizzante brezza le discostò e fece danzare i suoi lunghi capelli. Sistemò il letto per poi avviarsi verso la porta.
    Non era stato un incubo. Incisa nell’anta dell’armadio c’era una frase: Je t'ai trouvée.
     
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    Inizio interessante seconda arte inquietante sarei andata avanti a leggere se ci fosse stato altro unica cosa a mio modesto parere semplificherei un po' il linguaggio peró la storia promette bene ..
    ..S'il vous plait Allert de l'avant?...
    :war: :bye:
     
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  3. Fortunato Ciotola
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    I

    Un’aria di tranquillità soffiava per tutta Rue de lilla. Pochi giorni prima un forte temporale aveva seminato disordine in tutto il paesino. Ai lati delle notturne strade si riuscivano ad intravedere pazienti uomini ripulir i loro cortili da fango e detriti.
    La piazza al centro della città era stata quasi completamente ripulita ma per il busto marmoreo al centro di essa non c’era più nulla da fare. Il forte vento e l’incessante pioggia avevano faticato ma alla fine erano riusciti a farla cadere al suolo.
    Era il busto di un uomo dalle caratteristiche fisiche assai peculiari, con quel volto simile a quello di un corvo, con il naso arcuato che si protendeva minacciosamente in avanti e due occhietti piccini. Il suo sorriso sembrava più una smorfia di dolore che un’esternazione di felicità. Del monumento era rimasta integra soltanto la targa commemorativa che portava inciso il suo nome con il solo anno di nascita: Nicolas Flamel - 1330.

    Illustre libraio e alchimista di origini francesi. Ma al di là di quel che i libri dicevano, c’erano altre voci riguardanti eventi ostili intorno al suo nome. Si vociferava che chiunque avesse avuto a che fare con quell’uomo fosse cambiato dal bianco al nero. Ma quelle storie, quasi leggende, affondavano le loro radici a molti secoli prima. Alcuni anziani di paese raccontavano che l’anima di quell’uomo era stata spezzata da un forte dolore per poi essere intrappolata proprio in quel busto marmoreo.
    Dicerie che piacevano tanto ai bambini curiosi e affamati di mistero in una Francia ancora scombussolata per la fine della guerra. Proprio una di queste losche vicende legate al suo nome era legata agli ascoltatori di quelle stesse storie, i bambini. Alcuni di essi, i più temerari, si riunivano per esplorare il bosco con lampade ad olio e lance di legno alla ricerca di qualche cimelio da sfoggiare.
    Gli anziani narravano di un bambino che, molti anni prima, si era avventurato da solo nel bosco in una notte in cui la neve aveva coperto quasi tutto. Si armò di lampada e sgraffignò pure il fucile da caccia del padre per poi addentrarsi nella fitta boscaglia.
    Non si ebbero molte notizie riguardo quella misteriosa esplorazione ma si raccontava che nel cuore della notte si udirono svariati colpi di fucile. Quasi uno di seguito all’altro.
    Il bambino non ritornò più tra le braccia della madre e i rimproveri del padre. Furono rinvenute soltanto le sue scarpe e la lampada ad olio quasi sommersa dalla neve.
    Entrambi gli oggetti sono, ancora oggi, custoditi nella cripta della chiesa del paese.
    Fu un duro colpo per la città. Infatti quel bambino troppo curioso era, altresì, il figlio del sindaco in carica. Il politico, ancora si racconta, mobilitò tanta di quella gente che i servizi del paese quasi implosero per l’affollamento. Alcuni testimoni giurarono di aver visto la figura di un uomo di spalle portare per mano un bambino per poi svanire nel paesaggio innevato. Se quell’uomo fosse il noto e misterioso alchimista non è sicuro ma si doveva pur dare del pane su cui i famelici giornalisti affondassero i loro luridi denti.
    Ormai sono passati 27 anni da quella notte. Il sindaco morì pochi anni dopo la sparizione di suo figlio, per il dolore giustificarono i medici, lasciando tutto il suo patrimonio alla comunità. Sua moglie, una donna di almeno la metà dei suoi anni, emigrò per meta sconosciuta non tornando più.
    Ma tutte queste sono soltanto invenzioni che gli anziani del paese raccontano le domeniche dopo la messa ai bambini per cercare di aver le loro attenzioni. La storia del figlio del sindaco era soltanto una delle tante. Ma era la più apprezzata da quei bambini che si sentivano maggiormente coinvolti rispetto ad altre storie in cui c’erano unicamente adulti.

    Proprio durante quella stessa domenica ci furono alcuni bambini che confessarono di aver visto uno spettro aggirarsi nei pressi della piazza. Sia i loro genitori che gli anziani creatori di quelle storie risero a tali parole. Tra la folla c’erano due graziose gemelle che, ancorate alla mano della loro mamma, le spiegarono che anche loro due avevano visto qualcosa di strano. La madre rispose con un sorriso per poi allontanarsi dalla piazza e prendere il viale di casa con le due figlie. Era una fredda domenica di marzo ma il cielo terso ed un vento quasi assente rendeva quei pochi raggi di sole piacevoli quasi quanto due mani calde intente a coccolare tutto il corpo. L’appuntamento domenicale era una routine per la madre e le due gemelle. Il marito e padre di quest’ultime, durante questi giorni religiosi, restava barricato nel garage di casa a coltivare il suo tempo in modo molto più gratificante, a suo dire. La casa distava poche centinaia di metri. Non appena entrarono nel vialetto sterrato le due bambine si distaccarono dalla presa della loro madre per correre nel casale in cui il loro padre si rifugiava. Dall’esterno sembrava un comunissimo garage in legno ma all’interno c’era una morbidissima moquette e tante teche piene di oggetti in legno dalle più variegate misure e sembianze.
    «Papà hai finito il tuo ultimo modellino?» disse una delle gemelle.
    Il padre non appena le vide varcare il portellone fermò ciò che stava facendo e corse ad abbracciarle, accovacciandosi sulle ginocchia. La madre era appostata sull’uscio a guardare la scena con un sorriso nascente dal cuore.
    «Piccole potete lasciarmi un attimo da sola con vostro padre?» chiese la madre con una voce calma.
    Le due bambine, senza farselo ripetere, diedero un ultimo abbraccio al loro padre per poi filare in casa. La donna si avvicinò all’uomo con uno sguardo diverso.
    «Cara cos’è successo?» chiese l’uomo con una vena d’allarmismo sempre più prominente.
    «Lo hanno visto.» disse la donna per poi portare le mani al viso «E se fosse ritornato davvero?»
    «Bernadette non mi dirai che anche tu credi a quelle storie per bambini?» sospirò l’uomo.
    «Sai meglio di me che non sono realmente storielle. Dobbiamo andarcene via di qui.» borbottò la donna per poi attendere la risposta affermativa del marito.
    «Noi non andiamo da nessuna parte. Non farti prendere dal panico e torniamo in casa, ho un languorino!» disse l’uomo cercando di sviare l’argomento principe.
    La donna non rispose. Semplicemente lanciò un’occhiataccia, una di quelle perforanti e allo stesso tempo glaciali, all’uomo che fece un passo indietro per l’aura irata della moglie.
    «Suvvia calmati! Quest’oggi cucinerò io per voi tutte.» propose l’uomo per poi svignarsela e risalire i tre gradini che conducevano alla casa.

    La famiglia si era, così, riunita nella sala da pranzo. La cucina era molto minimalista. Un fornello, un lavello e quattro sedie con un tavolo. Proprio quest’ultimo spiccava rispetto al resto dell’arredamento. Aveva una superficie in cristallo tutta contornata da un telaio in mogano nero. Tutto era già pronto da servire ad eccezione di alcune erbe aromatiche che la famiglia coltivava nel retro di casa. Le gemelle si offrirono per andarle a cogliere ma, la madre, conoscendo la delicatezza di queste erbe, ringraziò e andò lei stessa. Subito dopo il garage, da una porta al suo interno, si accedeva al retro di casa. Un piccolo appezzamento di terra con tante piante quanti cartellini per riconoscerle. La donna si avviò verso l’estremità del campo arato per poi accovacciarsi e raccogliere, qua e là, le piantine di cui necessitava. Aveva quasi terminato la raccolta quando una sensazione, simile a quella di sentirsi osservata, la invase. Non seppe spiegarsi il motivo ma il cuore iniziò a palpitare oltre la norma. Un gelido vento si scaraventò su tutto l’orticello facendo raggelare la donna ancora accovacciata nella terra. Capo chino tra la maggiorana e il rosmarino. Il cielo era cupo e pochi raggi di sole riuscivano a trapassare quella coltre densa ed umida. Un rumore simile a quello di rametti spezzati avvisò la donna che qualcosa si stava avvicinando a lei. Passi lenti e pesanti si stavano facendo strada tra le erbe e le colture in via di germinazione. La donna si accorse della presenza sempre più vicina ma non accennò minimamente ad alzare il capo o ritornare in casa. Sembrava che fosse pietrificata.
    «Da quanto tempo, Bernadette.» disse una profonda voce ad un paio di passi dalla donna china.
    Quest’ultima non fiatò né si mosse. Sperava di sembrare invisibile, invogliando l’uomo ad andar via pensando di aver sbagliato persona. Ma l’uomo non accennò ad andar via, anzi. Ripeté la stessa frase fin quando il battito della donna non era percepibile anche al di fuori del suo corpo.
    «S-Salve, come sta?» balbettò Bernadette sempre con lo sguardo e le mani nella terra.
    «Alzati, fatti vedere.» disse l’uomo senza lasciare spazio ad una contro risposta.
    La povera donna fu, quindi, costretta a stringere i teneri arbusti tra le mani ed alzarsi. Il capo era sempre chino. L’idea di rendere concreta quella presenza con la vista era un qualcosa di inconcepibile per lei. L’uomo avvicinò la sua mano al collo della donna suscitando in lei brividi misti tra la paura e l’emozione più pura. Non appena le dita le toccarono la guancia, la donna, chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore. Quelle dita, lentamente, alzarono il capo della donna con gli occhi ancora serrati. Lentamente le palpebre si aprirono rivelando quel che la donna sospettava.
    Un volto segnato dal tempo, il naso aquilino che si protendeva minacciosamente in avanti e due occhi di un nero talmente profondo da sprofondarcisi. Una barba bianca che nascondeva il collo e il capo coperto da una piccola coppetta nera. La lingua era tra le labbra, come se stesse assaporando quel momento prima di addentare una leccornia. Indosso aveva un lungo cappotto marrone che nascondeva il resto del suo vestiario. Quando i due sguardi si incrociarono la donna sussultò silenziosamente. Si sforzava di tenere il suo sguardo alto ma la tentazione di riabbassare il capo era forte.
    «Tu, invece, come stai? Ti vedo in gran forma.» disse l’uomo continuando a leccarsi le labbra.
    «S-Sto bene. Stiamo tutti bene…» disse con un filo di voce la donna per poi spostare lo sguardo.
    «C’è qualcosa che non va? Sai che la tua famiglia mi sta molto a cuore. Come stanno le tue figlie?» disse l’uomo suscitando nella donna una tenue fitta al cuore tanto da portare una mano al petto.
    «Stanno benissimo… Perché è tornato?» disse Bernadette con un tono leggermente più freddo.
    «Mia cara sarò forse un fastidio? Una persona indesiderata?» disse l’uomo continuando a carezzare la guancia della donna con le nodose nocche della sua mano.
    La donna non rispose. Deglutì per poi iniziare a sudare freddo. La mano dell’uomo discese verso il torace della donna sistemandosi all’altezza del cuore. Le inferse una leggera pressione per poi ritrarre la mano e spostare lo sguardo oltre le nuvole.
    «La luna piena è prossima, direi.» disse l’uomo con una tonalità distaccata, come se non stesse più parlando con Bernadette ma a se stesso «Ci rivedremo, salutami anche tuo marito.» disse l’uomo per poi svanire oltre l’orto, nella fitta boscaglia limitrofa.
    Non appena la sua ombra svanì dalla sua vista la donna crollò sulle sue ginocchia con gli occhi ricolmi di lacrime. Gocce talmente bollenti da lasciare un leggero arrossamento sulle fredde gote. Restò inerme giusto il tempo di sentire la voce di una delle sue figlie che la chiamava mentre avanzava verso di lei. A quella vocina la donna scattò per asciugarsi il viso e darsi una sistemata.
    «Mamma! Mamma, dove sei?!» urlò la bambina non scrutando la donna accovacciata tra gli alti cespugli di rosmarino.
    «Séline, sono qui!» urlò la donna per poi alzarsi per farsi vedere «Torna in casa, sto arrivando!»

    Rincasata, la donna, si apprestò a raggiungere la cucina con in grembo soltanto poche erbe. Il marito chiese spiegazioni per il lungo tempo impiegato ma la donna sorrise senza rispondere per poi sedersi a tavola e mangiare. Dopo il pranzo le gemelle andarono in camera loro lasciando i genitori soli in cucina. Bernadette era impegnata a lavare quei pochi piatti che avevano usato mentre il marito, un rinomato falegname di paese, leggeva il giornale.
    La prima pagina mostrava una notizia che attirò l’attenzione dell’uomo. A caratteri cubitali c’era una notizia riguardante la vecchia miniera di Pontoise.

    ESPLOSIONI NOTTURNE ALLA MINIERA
    Tutto programmato?

    La notizia interessava in modo indiretto l’uomo. Suo padre, ormai deceduto da anni, era stato uno dei fondatori e scavatore in quella vecchia cava mineraria. Conservava ancora una vecchia pepita d’oro che l’uomo, suo padre, sgraffignò ai controlli per darla a suo figlio. La notizia in un certo senso gli donò una sensazione di conforto. Da sempre giravano voci riguardo la pericolosità di quella miniera. Dopo quelle esplosioni nessuno più rischierà la vita in quella tomba piena di pietre preziose.
    «Caro ma quella non era la miniera dove lavorava tuo padre?» chiese Bernadette dopo aver lanciato uno sguardo rapido al giornale.
    L’uomo annuì semplicemente senza parlare. Era troppo immerso nella lettura dell’intero articolo riguardante le esplosioni. Il testo alludeva ad esplosioni programmate e non dovute ad incidenti non previsti. Una sorta di cospirazione studiata da tempo. L’uomo non aveva interesse nel visitare una struttura di quel tipo ma decise che nel pomeriggio sarebbe andato a dargli un’occhiata in veste di semplice curioso. Fece passare un’ora per poi indossare il cappotto ed il cappello e uscire.
    «Dove vai? Sta per scoppiare un temporale.» disse Bernadette che si era sistemata dinanzi al camino a rintoppare delle calze di lana.
    «Vado da Devon. Andiamo a prendere qualcosa al bar.» mentì in parte l’uomo.
    «Ma oggi è sabato. Non è in ospedale a far visita alla madre?» chiese dubbiosa la donna.
    «Cara oggi è domenica. Siamo andati anche alla messa, questa mattina. Cosa ti succede?» chiese l’uomo notando la distrazione della donna.
    «Nulla, scusami. Salutami tanto Sebastian da parte mia.»
    «Bernadette mi dici cosa ti è successo?» replicò l’uomo con maggiore insistenza.
    «Perché? Non è successo niente, davvero.»
    «Non devo incontrare Sebastian, ma Devon.» spiegò l’uomo per poi avvicinarsi alla donna «Sebastian è morto 3 anni fa, non te lo ricordi?»
    La donna sussultò per poi iniziare a singhiozzare. Lasciò cadere le calze al suolo per poi tuffarsi nel petto di suo marito.
    «L’ho visto, Arthur. È tornato…» singhiozzò Bernadette soffocando il suo pianto nel cappotto del marito che avvicinò le mani alle tempie della donna per poi alzarle il capo.
    «Cara ti ho detto che quelle sono soltanto storielle.» disse Arthur per poi baciarle la fronte.
    La donna avrebbe voluto spiegargli ciò che aveva visto nell’orto ma non volle bloccare l’appuntamento dell’uomo così lo assecondò per poi scusarsi e dare la colpa allo stress e al poco sonno. Affranta e ancora leggermente singhiozzante riprese le calze mentre il marito varcava la porta.
     
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    Mi sembra molto interessante come inizio ..Adesso che ho letto di più devo dire che apprezzo il tuo modo di scrivere particolare .Grazie per avermelo fatto leggere e adesso? Tienimi aggiornata ... :) :bye:
     
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  5. Fortunato Ciotola
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    II

    Arthur era nella sua macchina, una vecchissima Citroen 7, che un tempo era di un nero splendente. Quante avventure, soprattutto disavventure, erano impresse nel telaio e nelle portiere di quell’auto. Il più evidente era nella portiera sinistra; uno squarcio talmente profondo da mostrare l’interno dell’auto. La meta dell’uomo era una minuscola casetta subito fuori il paese. Casa di un giovane ragazzino di 15 anni, suo apprendista se vogliamo proprio dargli un’etichetta. Arrivato dinnanzi alla graziosa casetta in legno l’uomo pigiò un paio di volte il clacson. Dopo un paio di minuti, non vedendo uscire nessuno, risuonò il clacson per poi vedere uscire, di corsa, il ragazzino con borsone e cappellino.
    «Salve Signor Miller! Scusi il ritardo ma terminavo di mangiare.» disse con ancora un leggero affanno il ragazzino mentre si apprestava a prender posto e chiudere lo sportello.
    «Tranquillo, Devon. Ma mangi sempre così tardi la domenica?» chiese Arthur mentre provava riaccendeva il dispettoso motore della sua Citroen 7.
    «Faccio sempre mangiare prima la mamma e poi preparo qualcosa per me.» spiegò celermente il ragazzino.
    «Giusto… tua madre. Ma come sta?» chiese Arthur sperando di deviare alla sua dimenticanza.
    «Resiste. I medici sono fiduciosi ed io con loro.» disse Devon per poi afferrare con i denti una scorza di pane che aveva avvolto in un fazzolettino «Dove stiamo andando Signor Miller?» chiese con ancora il tozzetto di pane tra i denti e la lingua.
    «Siamo diretti alla miniera. Dobbiamo controllare una cosa.» disse Arthur senza accennare nulla riguardo le esplosioni.
    «Ho letto qualcosa questa mattina di ritorno dal mercato. Parlavano di alcune esplosioni, mi sembra.» disse Devon dimostrando di non essere ignaro ai fatti.
    «Ne so quanto te. Dall’articolo non ho tratto niente di interessante e così ho deciso di visitarla di persona. »
    «Signor Miller posso farle una domanda personale?» chiese il ragazzino per poi ingoiare il boccone.
    «Certo, dimmi tutto.» disse Arthur con un tono non dissimile da quello di qualcuno che già poteva immaginare la domanda.
    «Quella è la miniera dove…» provò a chiedere Devon bloccato da un tenue disagio.
    «…dove morì mio padre, sì.» terminò Arthur «Appunto per questo vorrei vederci chiaro, capisci?»
    Devon annuì senza fare altre domande. Il viaggio, una volta usciti dai sentieri battuti era dissestato e poco confortevole. La Citroen dava numerosi segni di cedimento ma, faticando, riuscì a portare tutti alla meta. Com’era immaginabile c’era una gran folla appostata davanti alla miniera. Almeno una decina di auto parcheggiate alla meglio sulla ghiaia e un paio di volanti della polizia. Al centro di esse spiccava un grasso uomo in uniforme con un folto paio di baffi neri e due guance rosse come il sangue. Urlava parole incomprensibili cercando di sedare la folla sempre più opprimente e disperata.
    Non appena Arthur ed il ragazzino si avvicinarono, un esile poliziotto andò loro incontro per poi stringere la mano all’uomo e dar una pacca sulla testa di Devon.
    «Da quanto tempo, Arthur! Qual buon vento ti porta da queste parti?» chiese il poliziotto.
    «Sono in veste di semplice curioso, tranquillo.» spiegò brevemente Arthur con un tono sfuggente.
    «E questo dovrebbe essere tuo figlio, se non erro. È proprio un bel giovanotto!» disse il poliziotto.
    «Ho soltanto due figlie! Lui è Devon, il mio allievo.» disse Arthur per poi voltarsi verso Devon «E lui, questo omuncolo, è Alphonse Bertillon, uno scansafatiche di prima categoria!»
    Dopo una stretta di mano tra il poliziotto ed il ragazzo, Arthur, disse a quest’ultimo di seguirlo. Salutò l’amico poliziotto per poi addentrarsi nella folla. Tante erano le persone che, non appena lo vedevano, lo salutavano affettuosamente. Arthur era molto ben voluto ed apprezzato da tutto il paese. Attraversarono, letteralmente, il grumo di gente per poi sistemarsi in un angolo leggermente più tranquillo.
    «C’è troppa gente. Dovremo tornare quando si saranno calmate le acque.» disse Arthur al ragazzino che annuì semplicemente.
    Diretti verso l’auto, l’uomo, notò una figura grottesca aggirarsi tra la folla. Un alto uomo, sulla settantina, con indosso un lungo cappotto marrone ed una coppetta nera. L’uomo era di spalle ma non appena Arthur gli passò dietro avvertì una fitta gelida attraversargli il petto. Affrettò il passo trascinando il ragazzino con sé per poi barricarsi in auto. L’agitazione inspiegabile dell’uomo era percepibile e quasi palpabile con mano. Il viso madido di sudore e le labbra secche erano i segnali più evidenti di quel disagio ingiustificato.
    «Signor Miller si sente bene?» chiese Devon preoccupato per l’aspetto sempre più pallido dell’uomo.
    «Va tutto bene, tranquillo. Sarà un calo di pressione, nulla di cui preoccuparsi.» disse Arthur.
    «Vuole un pezzetto di cioccolata?» chiese Devon per poi aprire una tasca del suo giubbotto per estrarre una mezza tavoletta di cioccolato.
    «Chi non accetta non merita!» disse Arthur cercando di sdrammatizzare il momento «È deliziosa!»
    Non appena il cioccolato fece il suo effetto e il viso dell’uomo riacquistò colorito si sistemò per andare via. Non appena infilò le mani nelle tasche per prendere le chiavi le scoprì essere vuote. Allungò lo sguardo in giro per l’auto ma non le trovò. Addirittura Devon era saltato nei sedili posteriori con l’intento di perlustrare le zone più luride dell’auto. Le chiavi non c’erano. Devon si propose di ripercorrere la strada percorsa in precedenza nello speranzoso tentativo di trovarle nella ghiaia. Arthur acconsentì mentre ancora cercava tra i sedili e le tasche del cappotto.

    Non appena il ragazzo arrivò nei pressi di Alphonse, quest’ultimo gli chiese cosa stesse facendo con lo sguardo chino al suolo. Devon gli spiegò che avevano smarrito le chiavi dell’auto e che le stava cercando. Il poliziotto gli augurò buona ricerca per poi liquidarlo con una pacca sulla testa. Devon riabbassò lo sguardo e ripercorse la strada ghiaiosa. Camminando con il capo chino non si accorse di essere entrato nella traiettoria pericolosa. Una grande mano afferrò il suo capo per bloccarlo. Devon subito si scusò per la disattenzione nel suo camminare. Non appena alzò lo sguardo per vedere chi aveva quasi investito, si ritrovò un alto uomo con un lungo cappotto marrone ed una lunga barba. L’uomo sorrise per poi porre nelle mani del ragazzino il mazzo di chiavi che stava cercando.
    «M-Ma lei come sapeva…» balbettò sorpreso Devon «Grazie, davvero!» concluse.
    «Io conosco tante cose mio caro ragazzo. Ora va, ci rivedremo presto.» disse l’uomo per poi voltarsi e confondersi nella folla.
    Devon avrebbe voluto sdebitarsi con un pezzo di cioccolata ma nemmeno il tempo di estrarlo dal cappotto che l’alto uomo era già svanito alla sua vista. Provò ad alzarsi sulle punte dei piedi per provar a vedere oltre la folla ma tutto fu inutile. Fece spallucce e dopo aver addentato la tavoletta ritornò verso la macchina. Non appena uscì dalla bolgia avvertì una forte fitta al cuore. Tanto forte da costringerlo ad accasciarsi al suolo e portare le ginocchia al petto. I suoi lamenti iniziarono come sussurri fino all’attirare l’attenzione di molti, tra cui l’agente Bertillon. Subito questi alzò il capo del ragazzo cercando di capire se fosse o meno svenuto. Era cosciente ma faticava a muoversi. Bertillon alzò lo sguardo in cerca del suo amico Arthur ma vide soltanto una massa di gente accerchiare lui ed il ragazzo. In lontananza notò un vecchio uomo approfittare del diversivo per sgattaiolare nella miniera. Il poliziotto provò ad avvisare il suo superiore ma non ci fu modo di fargli comprendere cosa il suo labiale volesse dirgli. Dopo nemmeno un minuto si unì al cerchio anche Arthur che subito si accasciò per osservare il suo allievo. Lo sguardo era presente ma la bocca socchiusa e la pelle sempre più pallida lasciavano pensare al peggio. Tra la folla emerse un uomo annunciatosi come medico. Un uomo di media altezza dai capelli neri come la pece, gli occhi azzurri ed una mascella molto pronunciata. Anch’egli indossava un lungo cappotto. L’unico segno che lo contraddistingueva dalla massa erano un paio di guanti il pelle che indossava. L’uomo, velocemente, prese la sua borsetta in cuoio per poi fare una rapida visita al ragazzo. Gli mise un paio di pillole sotto la lingua per poi mandargliele giù con un sorso d’acqua. Giusto il tempo di mandare la medicina giù nello stomaco che il ragazzo riprese colorito. Tranquillizzata, la folla, riprese le sue proteste contro la miniera e si diradò. Intorno al ragazzo restarono soltanto il presunto medico ed Arthur. Bertillon era stato chiamato a gran voce dal suo paffuto superiore.
    Arthur volle ringraziare il medico con dei soldi ma questi rifiutò per poi prepararsi ad andare via.
    «Lasci almeno che le offra un pasto caldo a casa mia.» disse Arthur per poi alzarsi insieme all’ancora scombussolato Devon.
    Il medico osservò ancora per un attimo il ragazzino che era sempre più roseo per poi declinare l’invito dell’uomo e svanire a passo svelto. Arthur fu costretto a portare Devon in auto per poi ingranare la marcia e prendere la via verso casa. Il viaggio fu accompagnato da una forte pioggia che rese molto scivolose le strade. Il ragazzo non fu di molta compagnia, restò in silenzio per più della metà del viaggio. Ad ogni fosso la macchina sobbalzava al punto da far urtare il capo di Devon contro il tetto. Il ragazzo era ancora con una mano intenta a massaggiarsi il petto. La fitta era sparita ma la paura che potesse riemergere era alta. Arthur provò a porgli qualche domanda per capire l’origine del dolore, magari riconducibile ad un pranzo mandato giù troppo velocemente. Di quel che fece il ragazzo nulla parve causa di un simile malanno. Quando, però, il ragazzo gli spiegò di essersi imbattuto in un uomo e della frase strana che egli gli aveva detto, Arthur frenò bruscamente. Immediatamente chiese spiegazioni più dettagliate. Soprattutto riguardo l’aspetto di questo ipotetico uomo. Arthur, man mano che il ragazzo aggiungeva dettagli alla descrizione, sbiancava sempre più.
    «Allora Bernadette aveva ragione…» disse tra sé e sé l’uomo per poi schiacciare sull’acceleratore.
    Ad ogni tornante preso ad alza velocità la vecchia Citroen sembrava ribaltarsi e cadere giù nella vallata. Le suppliche del ragazzino di rallentare furono completamente ignorate dall’uomo fin quando non iniziò ad avere tenui conati. I tergicristalli quasi non riuscivano a tenere a bada l’incessante pioggia che calava dal cielo. Fu un urlo di Devon a far frenare l’uomo che era prossimo ad urtare un auto che si era schiantata contro un albero. Arthur raccomandò al ragazzo di restare in auto per poi prendere un ombrello e andare a controllare l’autovettura incidentata ed ancora fumante. All’interno di essa, con il capo insanguinato contro il volante, c’era il medico che poco prima aveva soccorso Devon. Subito Arthur lo sollevò per poi trascinarlo, con l’aiuto di Devon, sul seggiolino posteriore.
    L’uomo era inerme con una ferita al lato della testa ancora gorgogliante di sangue. Arrivarono subito all’ospedale più vicino. Più che un ospedale era una piccola clinica dove si rifugiavano medici non propriamente brillanti. Arthur avrebbe voluto andare in un vero ospedale ma distando quasi due ore dalla loro posizione optò per quella più celere soluzione. Non appena arrivarono due infermieri distesero l’uomo su una barella per poi correre al riparo da quella incessante pioggia. Mentre il medico era sotto le cure di altri medici, Arthur approfittò della situazione per chiedere, ad alcune infermiere dove fosse il punto ristoro. Portò con sé il ragazzo dallo stomaco borbottante. Presero una brioche calda ed una tazza di latte bianco. Rigenerati e sazi ritornarono nella sala d’attesa dove trovarono un medico intento a leggere una cartella clinica. Chiesero notizie riguardanti il medico ferito ma l’uomo non seppe aiutarli. Dopo un po’ uscì uno dei due infermieri, quello più giovane dei due, che prima aveva portato in sala l’incidentato. Arthur pretese notizie.
    «Signore si calmi. Il suo amico non è il primo incidentato di oggi. Questa maledetta pioggia ci porta soltanto lavoro in più…» borbottò l’infermiere mentre mescolava lo zucchero nel caffè «Comunque il vostro ferito sta bene. Leggera commozione, niente di grave. In serata potrà anche uscire.»
    «In serata?» chiese Arthur guardando l’orologio allarmato.
    «Sì, in serata. Va di fretta forse? Guardi che qui tutti andiamo di fretta quindi veda di calmarsi che già ho faticato troppo per oggi.» disse con tono pacato l’infermiere intento a sorseggiare il suo caffè.
    «Senta io non posso restare qui ad aspettare che faccia sera. Il mio presunto amico è un medico, penso sappia badare a se stesso una volta ripreso. Noi andiamo via.» annunciò Arthur prendendo Devon per il polso.
    «Faccia come vuole, buona serata.» concluse l’infermiere con tono disinteressato.


    Ed ecco il secondo capitolo di questo romanzo che terminai nel dicembre dello scorso anno.
    Io son felice che gli occhi di questa community stiano esplorando le mie parole, soprattutto quelli di colei che, pian piano, sta lasciando anche un segno della sua presenza.

    Grazie, davvero. (:

     
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    Grazie a te sincron :lol: per aver pubblicato qui l'inizio del tuo affascinante romanzo io adoro leggere e questi primi capitoli mi sono piaciuti molto..dici che è parte di un romanzo che hai già finito ma lo pubblicherai? :bye:
     
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  7. Fortunato Ciotola
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    CITAZIONE (Pagi79 @ 3/6/2016, 22:07) 
    Grazie a te sincron :lol: per aver pubblicato qui l'inizio del tuo affascinante romanzo io adoro leggere e questi primi capitoli mi sono piaciuti molto..dici che è parte di un romanzo che hai già finito ma lo pubblicherai? :bye:

    L'anno scorso partecipai al premio letterale "La Giara" indetto dalla Rai.
    Ma ormai è risaputo che in questo concorsi vanno avanti i figli di e amici di.

    La mia idea è renderlo sempre migliore per poi tentare la pubblicazione. Dovrò prima metter da parte qualche soldino.
    Son felice che il mio testo ti stia piacendo. Appena tornerò a casa pubblicherò il terzo capitolo. (:
     
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    Io non sono certo un critico letterario però a me piace quindi se come ti auguro arriverai sullo scaffale o in un ebook store una copia l'hai già venduta!

    Se però non lo pubblichi e mi lasci a metà ....vengo a cercarti ....sarò quella col cappotto lungo e la bombetta...... :èèè: :rofl: :rofl:
     
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  9. Fortunato Ciotola
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    III

    La sera giunse e tra svariate deviazioni e strade allagate la vecchia Citroen raggiunse prima l’abitazione di Devon, dove appunto fu lasciato il ragazzo con la promessa di tenere sotto controllo quella fitta, per poi fermarsi presso la dimora dello stesso Arthur. L’acqua aveva scavato enorme pozzanghere tutt’intorno al vialetto d’ingresso. Proprio in una di queste il povero uomo inciampò e cadde. Zuppo fino all’ultimo centimetro entrò in casa tutto tremante per il freddo. Bernadette, sveglia seppur l’ora tarda, lo accolse e accompagnò dinnanzi al camino ancora scoppiettante. Gli tolse gli stivali per poi portargli le sue pantofole. Le figlie avevano già cenato ed entrano andate a dormire. La giornata era stata lunga anche per loro che terminarono alcune letture che si erano programmate di completare. Una volta asciutto, Arthur, si avvicinò a suo moglie, sempre davanti al fuoco, e iniziò a professare parole tremanti e sussurrate.
    «Bernadette immagino tu abbia ragione…» disse Arthur cercando di riscaldarsi le mani con il fuoco.
    «Riguardo cosa, Arthur?» disse Bernadette ancora intenta a rintoppare dei pantaloni.
    «Riguardo lui. Ho avuto la stessa, identica, sensazione di 11 anni fa.» sospirò Arthur.
    La donna lasciò gli utensili di lavoro per poi alzare lo sguardo verso il marito. I suoi occhi erano ricolmi di paura e angoscia ma anche di felicità per l’accettazione da parte del marito. Le successive chiacchiere furono interrotte da una delle due figlie che li aveva raggiunti per usufruire, anch’ella, del tepore del camino. Poco dopo si unì al trio anche la seconda figlia. All’addormentarsi del fuoco anche i quattro si abbandonarono ad un lungo e meritato sonno tra occhi ancora lucidi e pensieri incerti riguardo il domani.
    La notte trascorse molto lentamente. Soprattutto nei pressi della miniera che, adesso, sembrava essere disabitata. Almeno esternamente l’impressione era quella. Al suo interno, tra le rovine e le pareti crollate su se stesse c’erano varie ombre proiettate contro i muri ancora integri. Nel più profondo cuore della miniera c’erano alcuni uomini seduti intorno ad un focolare a parlare. Tra di essi, al centro, c’era un anziano dalla barba lunga e il cappotto marrone. Alla sua destra si era sistemato un altissimo e grossissimo omone dai capelli neri e leggermente unti. I restanti due erano una donna oscurata dalla penombra ed un uomo con un occhio bendato ed un grande cappello sulla testa. A parlare era proprio quest’ultimo. Il discorso era incentrato proprio sulle esplosioni avvenute la notte precedente. Ad un certo punto la conversazione fu interrotta proprio dall’uomo al centro. Avvertì gli altri di far silenzio e di ascoltare. A non troppa distanza dalla loro posizione c’era un’altra persona, nascosta tra alcune travi crollate.
    «Non essere timido, vieni qui tra noi.» pronunciò l’anziano uomo al centro.
    Da dietro quegli ammassi di terra e legno uscì un ragazzino, Devon.
    «Noto con piacere che sei riuscito a raggiungerci. Accomodati alla mia sinistra, vicino al fuoco.» disse l’anziano dagli occhi neri come l’oscurità più profonda «Vuoi provare a spiegarci come mai sei ritornato alla vecchia miniera?» chiese l’uomo con tono superiore di chi già conosce la risposta.
    Il ragazzino si avvicinò al gruppo per poi sedersi proprio davanti al fuoco. Nessuno parlò. Tutti attesero che il ragazzo prendesse un po’ di calore per poi iniziare a raccontare.
    «Ho sentito soltanto una voce, una sensazione più che altro, quest’oggi. Poco prima di provare una forte fitta al petto. Spinto dalla curiosità ho deciso di ritornare» provò a spiegare Devon mentre fissava inerme il fuoco danzare sotto i suoi occhi.
    «Caro ragazzo adesso non affaticare la tua mente con questi pensieri. Sei nel posto giusto, tranquillo.» disse sempre l’anziano uomo che invitò le due donne e il terzo uomo ad andar via con un cenno di mano.
    Restò soltanto il corpulento e silenzioso omone. Bastarono pochi minuti al vedere crollare dalla stanchezza il ragazzino dinanzi al fuoco. Proprio in quel momento l’uomo riprese a parlare, questa volta direttamente alla sua destra.
    «Ti avevo avvertito del suo arrivo.» disse l’anziano all’omone.
    «Certo ma il vederlo con i propri occhi fa tutt’altro effetto. È sempre capace di stupirmi, Maestro.» disse l’omone per poi avvicinarsi al ragazzino disteso nella terra calda.
    «I miei progetti riguardo questo ragazzo sono ancora agli inizi. Adesso riaccompagnalo a casa, ci rivedremo presto, Mason.»
    «Aspetterò sue notizie, allora.» disse l’omone per poi raccogliere il ragazzo e sparire oltre le rovine.
    L’omone prese tra le sue braccia il ragazzino addormentato per poi portarlo verso un enorme sidecar. La lucida laccatura lasciava immaginare fossa nuova di secca ma il borbottio non proprio uniforme del motore fece capire che era unicamente apparenza. Al terzo tentativo il bestione echeggiò con un rombo che quasi staccò le foglie dagli alberi più bassi. Stretto il volante tra le mani e sistemato il ragazzino al sicuro, Mason, partì. La strada dissestata ed ancora bagnata non furono un problema intramontabile. Il forte vento scuoteva le penzolanti ciocche di capelli che fuoriuscivano dal casco, tutto graffiato e pieno zeppo di ammaccature, dell’omone. Ad ogni pozzanghera che attraversava creava vorticosi muri d’acqua.
    Giunse a destinazione alle prime luci dell’alba. Il ragazzino cominciò ad aprire gli occhi per poi chiedersi dove fosse. Il tenue sole che tanto mancava a quella terra zuppa di pioggia rinvigorì anche la malata madre del ragazzo che, sentendo il fracasso del sidecar, uscì supportata da un bastone.
    «Mi permetta di chiederle una cosa.» disse la donna con un filo di voce «Ma lei chi sarebbe?»
    «Mason, per servirla. Ho riportato a casa sua figlio.» spiegò brevemente Mason per poi rimontare in sella al suo bolide ancora fumante.
    «E come mai mio figlio era in giro con lei? Non mi sembra di averla mai vista prima.» chiese la donna per poi tossire leggermente.
    «Se mi offre una tazza di tè caldo le spiegherò tutto.» propose Mason per poi accomodarsi nella piccolissima baracca.


    Tranquilla che non ti lascerò a metà. Al massimo non pubblicherò il capitolo finale (:
     
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  10. hýbris
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    Che bello, un romanzo completo!Qui a casa non posso stampare, ho finito la carta. Domani spero di rifornirmi e lo leggerò con maggiore tranquillità. Il prologo mi è piaciuto molto,Complimenti. :)
     
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    Disintossicati dai libri

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    Hybris a me é piaciuto molto merita davvero di essere letto secondo me sincron promette bene..... :bye:
     
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10 replies since 11/5/2016, 11:58   124 views
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